Sasà, come i suoi coetanei, veniva da una scuola fascista. Alcuni di loro si sono schierati presto sentendo la pressione del regime. A quell’età, dice Sasà, la maturazione avviene all’improvviso e per salti. Per lui, già a tredici anni, era insopportabile non poter dire tutto quello che gli pareva, essere zittito quando si stava per stava. Ma la svolta fu la promulgazione delle leggi razziali, quando aveva 16 e si ritrovò a perdere compagni di scuola, espulsi da scuola perché ebrei. Questo lo fece decisamente schierare. Poi c’era un profondo rifiuto della violenza, tant’è che finito il liceo aveva scelto di fare il medico perché così, pensava, nel caso fosse andato in guerra, non sarebbe stato costretto ad uccidere nessuno, al contrario poteva salvare delle vite. Non ha mai sentito come propria la retorica della patria e del nemico. E poi cominciò a serpeggiare la certezza che l’Italia la guerra l’avrebbe persa. Quando arrivarono i tedeschi occupanti, l’impatto fu così violento che si decise di reagire. Pervase lo spirito garibaldino, la convinzione, cioè, che l’Italia andasse liberata con azioni di guerra e non con i trattati.
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